domenica 29 agosto 2010

Allarme maltempo

I miei sono venuti a trovarmi il mese scorso. Il primo giorno, con loro liberi come studentelli e io responsabile al lavoro, pensavo che erano stati fortunati a trovare bel tempo. Tornato a casa mi sono quasi scandalizzato a sentire che nonostante il sole fuori, avevano passato tutto il giorno per musei.

E mi sono reso conto di una cosa. Che questa mania, che quando fuori c'è il sole devi per forza uscire, stare fuori, succhiare calore con i pori a cannuccia, è una cosa che non ho sempre avuto. Quando ero in Italia, capitava di stare in casa per intere giornate estive. Senza sensi di colpa. Qui no. Quando, fuori dalla finestra, il marrone delle case di mattoni si ingiallisce, la città intera si rovescia in strada o in uno dei parchi situati in tutti i punti cardinali. Tanto che nei giorni di pigrizia si è contenti che il tempo sia brutto, che così non serve lasciare il letto troppo presto.

Quando sei in un posto caldo, come laggiù da voi, il sole lo dai per scontato. Quando c’è c’è, è un dato di fatto, quando non c’è è brutto tempo, magari dopo un po' infastidisce, ma il sole tornerà.

Qui invece la frase del Corvo ha tutto un altro significato. Qui è il maltempo ad essere dato. Quando il sole arriva, invece ci si concentra all'aperto. Anche in massa va bene, anzi, è meglio, perché si diffonde il buonumore. Stravaccati nel parco siamo tutti simili, respiriamo il fumo dello stesso barbecue, a pensarci un po' ci si vuole anche un po' di bene. Noi, i tizi che giocano a calcio nel prato e le ragazze distese sugli asciugamani a ragionare sui test delle riviste femminili.

In pratica qui il sole non c’è mai, ma quando arriva vale come dieci soli italiani. Il che fa sì che quassù ci sia la stessa proporzione di giornate serene che c'è in Italia. Forse è per questo che dicono che il paese più felice al mondo sia la Danimarca.

Tutto questo in teoria, perché oggi quei dieci minuti di sole non hanno tolto nulla agli acquazzoni, al vento e alle prime foglie cadute dagli alberi, il 29 agosto. L’inverno, in realtà, ha già rotto le palle.

venerdì 27 agosto 2010

Cles City Rockers

Ho una zia che è una leggenda urbana. Anzi, una leggenda alpestre, dato lo scenario.

L’ho scoperto quando ho avuto l’età giusta per sapere chi erano i Clash, che in Val di Non, dove in epoca preinformatica c’era un solo negozio di dischi, dove i doppi ciddì li pagavi come due ciddì (76.000 lire per il disco bianco dei Beatles, circa 1996), corrisponde suppergiù ai 18 anni.

La storia che comincia a girare per i paesi, irradiandosi da bar e barbieri, è che la mia Zia Matta, ora una paffuta professoressa anzianotta, durante il suo periodo londinese all'inizio degli anni Ottanta, bazzicasse i membri ormai depanchizzati della banda.

La voce fa il giro lungo, scende verso la Rocchetta, risale l'altra sponda, lambisce il Mezzalone e punta verso Cles sfruttando correnti d'aria che le fanno accarezzare il pelo dell'acqua del Lago. Poi vira verso sud e solo alla fine raggiunge la famiglia della protagonista.

All'inizio non ci credo, poi comincio a pensarci. In effetti la Zia viveva a Londra nel periodo in cui sono stato scodellato al mondo. Comincio a svelare la trama nascosta. Quell’appartamento per cui mia nonna era orgogliosa della figlia, giusto dietro Buckingham Palace, ma affittato a prezzo amico, altro non sarebbe stato che uno squat nel quale girava certa musica e certa gente. D’un tratto anche l’eccentricità della Zia quadra: evidentemente droghe. Perché a 18 anni si scopre la disillusione e per un po' garba portarla all’estremo.

E le cassette reggae che metteva quando andavo a trovarla nell’appartamento di Gardolo? Però chiederle conferma era ammettere la sconfitta, ammettere di essere interessati alle storie del passato di una vecchia zia. A 18 anni, mia seconda adolescenza, semplicemente non si poteva fare. Al massimo si metteva London Calling quando passava per casa, per vedere la reazione. Nulla.

E poi c’è l’università. Fuori sede, come dicono dalla sede, quando in realtà nella tua sede ci sei, solo che è un'altra. Fuori abbastanza per convincere i parenti che sei in grado di sopravvivere, anche in un ambiente relativamente pulito, e magari anche di mantenere una zia in visita.


Così dopo anni di distanza, la Zia Matta viene a trovarmi mentre faccio lo stage a Firenze. È faticoso starle dietro, soprattutto nei momenti come in fila per fare il biglietto ai giardini di Boboli, dove la tirchia cerca, fra pile di turisti in fila dietro le nostre spalle, di convincere i bigliettai che lei nei giardini ci è sempre entrata gratis o per lo meno a darle uno sconto per professori, esibendo la tessera turca di quando insegnava inglese ad Istanbul.

Però una di quelle sere faticose, l’ultima, quella dove si gode della fine delle fatiche, si finisce al bar dietro l’angolo e circolano rinfreschi alcolici. Birra, nulla di che, ma basta quella a pulire la punta della lingua per far scivolare via quello che vi alberga.

“Zia, senti, mi dovresti spiegare quella dei Clash”

“Cosa?"

“Ah, vedi. Lo sapevo che non era vero” – Delusione

“I Clash?”

“Sì” – delusione disarmante – “in Valle gira voce che a Londra girassi coi Clash. Sai che ne girano tante…"

“No, i Clash no”

“Ah”

“No, però quello sempre incazzato, il chitarrista, l'ho conosciuto"

“Mick Jones?”

“Esatto”

Pare che Jones fosse sempre nervoso perché Strummer rompeva i coglioni, erano le fasi finali e già si pensava al poi. Anche per questo era sempre incazzato. Come polizza per il futuro aveva deciso di produrre un altro gruppo, i Big Audio Dynamite, con gente tipo Don Letts (produttore, diggei, l'uomo che la leggenda vuole primo mescolatore di vibrazioni statiche caribiche e angoscia verso l'avvenire in stile nordeuropeo) e Greg Robert, il batterista, quello che frequentava mia zia.

Ora sono d'accordo con voi, come leggenda metropolitana non è proprio un gran che, ma come leggenda alpina, in un mondo dove non si è visto molto a parte i gruppi cover, i Figli di Dioniso e Bob Dylan (con i soldi della Provincia), il batterista degli Audio Dinamite ha delle credenziali importanti.

Mi veniva in mente così, perché la Zia è venuta a trovarmi ed è tornata a casa con una tortina alla canapa. Anche a quasi sessant'anni giustifica chi la chiamava Fulmy.

sabato 21 agosto 2010

Girare

Com’è che parlano tutti di viaggi?

Non viaggi estivi, mare, ferie, che quello sarebbe anche normale, ma viaggi epici, oppure viaggi di una vita, che lasci e stai via mesi, e quando torni boh. Quei viaggi che ti fregano, perché dici che sei mesi ti basteranno per tutta la vita e poi invece no, la paturnia di girare non ti si leva più. O così dicono, che a me non è mica mai successo.

Ci sono almeno due persone che conosco che sono appena tornate dall’Islanda. E questa è la categoria epica, che vedi le foto e ti viene voglia di finirci anche tu, con ste luci e sto verde, che, avresti sempre detto, vengono bene sul National Geographic, ma la vera vita non è mica così. E poi invece guardi le foto di sti amici, che sono civili, mica fotografi, e scopri che forse la vera vita può essere così, in effetti.

E poi sta tipa e il suo ragazzo che in nove mesi faranno il giro del mondo. Al termine della prima settimana, in Ecuador, lui dice di aver già finito i soldi. Irlandese, lui. Difficile essere più irlandesi di così, da sobri.

E siccome nessuno me lo chiede, ecco il mio giudizio: non farei mai il giro del mondo, perché essere in America e organizzare l’Australia è come scegliere i dessert a metà braciola, ti mette in bocca un sapore che non c’entra.

E poi un’altra amica che va in India, lei. Lei, che non diresti che andrebbe in India, perché sembra la tipa da posti comodi, e quel giornalista là, sulle montagne di Nurata ti ha detto che l’India è il viaggio più difficile. Dice, malattie che non ti immagini, gente che esibisce la morte, caldo, insetti e infezione alimentare sicura come la cartolina a mammà. Che poi, se ci dedichi due neuroni, magari non è che sia così dappertutto, no? Che fra l’Himachal Pradesh e il Kerala c’è la stessa distanza che c'è fra Terzolas e Niznij Novgorod e comunque se vai a Goa è più vicino a Ibiza che a Calcutta. Forse il denaro è il più grande dei frequent flyer, forse.

E poi c’è chi torna a Londra, perché a Londra non ci si va, ci si torna, chi torna in Corea del Nord, e là magari è un posto dove ci si va, più che tornarci, e non è neanche che siano in tanti, ad andarci. L’anno scorso tutti andavano a New York, quest’anno invece mi sa che basta, ormai ci sono già stati tutti, e forse è presto per tornarci. Io invece non ci sono mai stato, a New York, come cantano al carnevale di Colonia, dove sono stato, tornato e non ritornerò, ancora memore del mio record d’ubriachezza di sei serate filate.

Comunque è il tema del momento anche per me. Lo scorso inverno, verso aprile, mi sono promesso di non svernare mai più completamente nei paesi freddi, e allora adesso ci si pensa.

Mi piacerebbe avere una parentesi extraasiatica, ma comunque sempre in una landa misconosciuta, dove magari si parli una lingua che si comprenda, stavolta. Per questo si diceva Guyana e Suriname. e quello si farà. Ma al contempo divento ingordo, si parla già di Australia costa a costa in treno, per finire in Nuova Guinea, cicloturismo sui Balcani, prima volta in Sicilia, ma soprattutto il Grande Progetto: volare a Dubai, testimoniare la pazzia capitalista prima di salire sul bus per Muscat, Oman, arrivare in Yemen, attraversare in nave l’imboccatura del Golfo, attraccare a Gibuti, vedere l’Etiopia, l’Eritrea, il Somaliland, finire in Sudan e scendere il Nilo fino al Cairo.

Al momento, in questa sede, si studia un'alternativa al lavoro. O un lavoro con sei mesi di ferie l'anno. E dicono che il blogghista per pochi intimi non sia contemplato fra gli albi professionali.

venerdì 13 agosto 2010

Essere animali

Il lavoro mina l'autostima perché ti costringe a fare errori stupidi.
È che quando passi 8, ma anche spesso e malvolentieri anche 9 ore e passa a fare piccole operazioni insignificanti, a fine giornata, quante ne avrai fatte di quelle operazioni insignificanti? Migliaia? E su migliaia, ci sta o no, che una o due vadano male? Il problema è convincersene, o convincere i gerarchi, a scelta.

L'autostima non era a regime di piena ieri, mentre pedalavo verso casa, riavvolgendo la scia che avevo stampato su asfalto la mattina.

Poi mi fermo appena fuori Vondelpark, vado a prendere la zia pazza, che ha deciso di farmi un'improvvisata lunga sette giorni, facciamo un giro in centro e noto catene. Catene a centinaia legate ai pali per le biciclette. Legate ai pali, ma senza bicicletta. La meccanica è la seguente: uno parcheggia la bici la sera, pensando già a cinema, concerto o randevù con la tipa conosciuta su meetic e non si rende conto di non aver legato la catena ad un punto del telaio dal quale non può essere sfilata. Errori stupidi. Centinaia di catene, centinaia di errori stupidi. Monumenti all'errore stupido.

Allora capita che uno, la sera, consolandosi del proprio male con il male degli altri, vada a casa soddisfatto, sentendosi stupido, ma in compagnia. Guadagnando autostima dalla stupidità del genere umano.

Che poi gli umani non è che siano stupidi. Semplicemente non sempre usano la ragione. Non come un essere imperfetto, ma come il cane, il gatto, l'alpaca e l'axlotl. Un animale. È bello pensare di essere animali. In fondo abbiamo internet in casa, un lavoro e un'assicurazione sanitaria. Molto meglio di quanto possa fare il più intelligente dei San Bernardo.

E allora anche voi, amici e amiche, non guardate al Cayenne del vicino, ma alla cuccia del suo cane.

lunedì 9 agosto 2010

Uòdalu!

Una delle piazze principali di Amsterdam è dedicata agli ABBA.

Non proprio.

Il fatto è che ho notato che quasi nessuno dice Waterlooplein, ma Uoterluplein (Uodalu per chi ha imparato l’inglese guardando film americani). Poi ho scoperto che il concetto di “battaglia di Waterloo” non è per forza chiaro a tutti, così uno magari davvero, invece di pensare ad un tranquillo paese del Belgio, immagina una svedesona bionda di due metri. Il che è anche comprensibile, per carità.

E poi, mi dirai che è meglio dedicare una piazza ad un gruppo poppe che ad una battaglia, anche se ti toccherà sentirmi ribattere che una battaglia dove i francesi perdono è sempre degna di essere commemorata.

E magari hai anche ragione. Il fatto è che a me e la mia scarsa apertura mentale, l’europop anni Settanta farebbe abbastanza schifo.

Da quando mi sono accorto di dirlo anch’io, Uoterluplein, penso alla canzone dei Kinks, Waterloo Sunset e mi rimetto la coscienza a posto.

martedì 3 agosto 2010

Genio italico

Sono convinto che sia sbagliato farsi un’idea dell’evoluzione della società italiana leggendo i commenti di Yahoo Sport.
Gli italiani non sono tutti così. Nemmeno quelli che scrivono i commenti su Yahoo Sport sono così. Su internet però si scatenano, si lanciano contro gli altri solo perché gli altri non sono umani, ma iconcine con nomignolo e commento. Sono convinto che sia così. Almeno un po’.
Una volta ci deve essere stato un moderatore. Troppo lavoro, ora i commenti passano così come sono, con giusto un punto fra le due Z della più popolare fra le parole con la doppia Z. Ed è festa grande. Attacchi a colpi di parolacce, talmente carichi, forti, esagerati che sembra che a scriverle sia stato un decenne felice per l’effetto visivo provato scrivendo cacca, cacca e ancora cacca. Si storpiano i nomi degli altri, ci si dà dell'ignorante, si deplora, schernisce, ci si indigna e si invocano sanzioni, restrizioni, giutizia. Si usa ovviamente senza risparmio la parola “vergogna”, ma soprattutto si sproloquia, si insulta, si manda in der posto. Come nel paese reale, direbbero gl'impietosi. Secondo me no, non è possibile che il livello di livore sia levitato così.

Però a volte ci penso e mi viene da chiedermi se non sia veramente vero, che la gente ha cominciato a lanciare odio così, come le bocce di plastica in spiaggia, ma senza neanche prendersi la briga di vedere chi va più vicino al boccino. Non sono mica laggiù a testimoniare, io. Cosa ne so di quello che succede? Ma poi mi tranquillizzo. È l’anonimato, la spersonalizzazione, si sa. L'essere umano prova empatia per i suoi simili, ma solo quando si rende conto che gli sono in effetti simili, non quando guarda ad un'iconcina con il nomignolo.


E comunque non riesco a credere che sia solo un fenomeno italico. E infatti ieri avevo tempo, così sono andato a fare il giro degli Yahoo Sporti europei. Volevo vedere com'è all'estero, se siamo solo noi italici, o se la passione per lo sputarsi addosso a vicenda ci accomuna a salive create metabolizzando cibi differenti.


E la risposta è metà e metà. Perché sono partito dalla Germania e là non è che mi aspettassi più di tanta inciviltà. I tedeschi imparano l'etica a scuola e si vede. Nei rapporti sociali sono macchinosi, ma funzionali. Sul forum, commenti lungagnoli, seriosi, come piace a loro, ma nessun insulto. Solo casi di educato dissenso. In Inghilterra finalmente qualche invettiva, non contro gli altri utenti, ma tutti uniti contro i soggetti degli articoli. Giocatori, mogli, allenatori: la stampa sinistroguidante rende il gioco semplice indicando già chi è colpevole e deprecabile.


Poi vai in Francia e Spagna e vedi che sono come noi. A parte per il fatto che là gli utenti non si prendono la briga di tornare per vedere se l'intervento è stato a sua volta commentato (il sistema lo rende un'operazione complicata, ma in Italia lo si fa ugualmente), ma soprattutto si nota una certa carenza di fantasia. Nomignoli ispirati al nome reale, insulti classici, in contrapposizione con la fantasia italica, fatta di iperboli grottesche sulle dimensioni dell'amore e arzigogolate varianti della sessualità.


E alla fine vedi che l'italiano non è male. Anzi, l'italiano è male, ma lo è con classe. Se deve insultare qualcuno, l'italiano usa la fantasia.