giovedì 31 dicembre 2009

Distanze

Non è che sia questione di essere originali o meno. Si fa semplicemente fatica a fare diverso. Ogni anno, a fine dicembre sale sta mania di tirare le somme e ogni dieci anni la mania becca il jackpot, o il géppot, come si definirebbe in questa sede di estremisti della bellalingua.
Ci pensavo in seggiovia verso la cima della Paganella, dove avrei visto la parte fallica del Garda, Trento, il collo dell’utero dell'Alto Adige e su fino alla parte alta della Val di Non, il tutto in 10 minuti, dall’alto. Ci sono tornato a Treviso, in aeroporto, mentre scontavo la terza di sette ore e mezza di ritardo. L’ho sognicchiato stamattina, nella fase postREM, sotto la nuova cornetta della doccia.
A questo, pensavo: a cosa facevo dieci anni fa. E il fatto è che è solo a forza di pensarci che dieci anni fa comincia a non sembrare ieri.
Dieci anni fa il secondo DVD della storia della mia vita era appena - ma comunque già - cominciato. Fuori sede, con sempre meno voglia di tornare alla sede- Abitavo a Meldola, un posto molto più in provincia del mio paese in Val di Non, ma pazienza, era esotico e ci era nato Zaccheroni, che un paio di mesi prima ci aveva portato lo scudetto più divertente degli ultimi vent’anni.
Preferivo il coinquilinaggio alla famiglia e mi ero pure trovato la morosa. La prima, ché non sono mai stato profeta in patria. Anzi, era lo scopo pricipale per il quale l’avevo lasciata, la Valle.
Il capodanno del duemila lo avevo passato a Rimini, nella stessa piazza dove lo aveva passato Piero Pelù, che era appena uscito dal gruppo. Pare ieri, non fosse che ascoltavo Emerson, Lake & Palmer e avevo quasi smesso di leggere libri.
Gli ultimi libri, me li ricordo, erano stati 1984 e The Lost Continent, il mio primo libro in inglese. Poi solo roba per l’università, tranne la sera, prima di andare a letto, L’America perduta, di Bill Bryson, che poi mi sarebbe venuto comodo nel secondo semestre. Gli ultimi dischi “In the Court of the Crimson King”, regalo per la nuova morosa, che se ci penso ancora rido, per quanto poco era azzeccato, “The Piper at the Gates of Dawn” e “Pablo Honey”, solo perché i Radiohead erano la colonna sonora dell’università e virtualmente sconosciuti nella mia verde valle, e mi ero appena copiato David Bowie e i Cure per lo stesso motivo. Tutto roba che poi ho ascoltato poco, tranne magari il pifferaio alle porte dell’alba e Paolo Mieli.
Pare ieri ed è quello il problema. Perché sono arrivato al punto da pensare che in fondo, dieci anni, cosa vuoi che siano. E poi ci penso ancora e mi viene in mente che fra altrettanti anni, quelli dalla mia nascita saranno quaranta. Anzi, peggio, se sottraggo gli anni che ho vissuto dal mio anno di nascita arrivo al 1950, e questo fa paura, perché 50 e 80 sembrano distanti anni luce, invece sono là, solo lo spazio della mia vita. Per dire, la distanza fra Volare e London Calling è la stessa che passa fra i Joy Division e gli Editors. Fra l’Uruguay che vince i mondiali (Pelè è un bambino, Puskas sta esordendo con l’Honved) e Zoff sono distanti quanto Paolo Rossi premondiale e Balotelli.
Sono cose che fanno pensare. A classifiche idiote, ma fanno pensare.

lunedì 28 dicembre 2009

Uno ogni tanto torna anche a casa

Uno una volta ogni tanto torna anche a casa. Anzi magari no, perché nel frattempo chiama casa quella per la quale paga l'affitto e comunque quella casa, quella dove non è che sia nato, ma ce lo hanno portato appena partorito dall'ospedale, i genitori l'hanno rivoltata da capo a piedi.
Per andare a casa vede l'Italia, o almeno il campione più o meno gratuito-vietata-la-vendita fra i due tre d'Italia, Treviso e Trento.

La prima cosa che uno nota sono le case italiane, case come quelle che ha trattato come archetipo di casa per la maggior parte della vita: niente mattoni marroni, ma intonaco giallo, giallognolo, giallino, rosso, rosato, grigio. La differenza è che stavolta sembra che tutti facciano a gara a dipingere le facciate in colori sempre più sgargianti. Uno si domanda: può il colore rosso bordò assumere tonalità sgargianti? Da oggi sa che la risposta può essere sì. Può il giallo asburgico sembrare un tuorlo nucleare? Da oggi sì. Deve essere un nuovo componente, un ingrediente Ics che trasforma i colori in pugni negli occhi.
Una su tre di queste case è dotata di Babbo Natale arrampicondo. Ma questa, signori miei, è un'altra storia.

Vicino a Treviso ci sono paesi con nomi stupendi. Talmente nord-est che quando li pronunci senti in bocca il sapore della pasta e fagioli del sudore delle fronti dei nostri avi. Lo senti nelle Z che scivolano, nelle vocali al termine del nome, che quando ci sono sanno di imitazione napoletana. Come quelli che dicono Trèvisan invece di Trevisàn. Non c'entra, ma rende.
Il migliore, di sti nomi, è Zero Branco.

Poi sono quasi sette mesi che uno non tornava a casa, che è un record ed è destinato a rimanerlo almeno per i prossimi sette mesi e si accorge, uno, che certe parole, ma solo certe, gli vengono in inglese. Tipo che al bar urta uno e gli fa "sciòwi", che è la corruzione della lingua imperialista che usano lassù per dire sorry. E poi parla al bar e invece dei soliti "cioè", gli viene da dire "like". Sempre quasi, mai davvero, ma sempre quanto basta per creare pause di pochi centesimi di secondo nelle quali l'interlocutore si chiede perché si è fermato a metà di una parola senza senso. Così quando uno ordina il secondo giro di birra, parla con calma e si concentra sull'evitare l'"asciubliff" a fine frase, che sostituisce con un "per favore" che fa tanto italiano nato all'estero.

Non per dire, ma quell'uno sarei poi io.

giovedì 24 dicembre 2009

Tanto lassù siete tutti crucchi

Quando all'università mi chiamavano "il Crucco", quando mi accusavano di non voler essere italiano e parlare tedesco, io, unico del mio corso che il tedesco non lo sapeva ancora, beh, forse comincio a credere che un po' di ragione magari ce l'avessero anche avuta.

Il fatto è che sono tornato a casa. A casa dei miei, perché quella dove sono nato e ho vissuto per 18 anni completi più dieci altri con cadenza saltuaria, è stata rivoltata e ricostruita e ora faccio fatica a chiamarla casa mia. Tutto questo nonostante mia madre ci tenga ogni volta a specificare che hanno tenuto la mia camera e anzi, me l'hanno fatta bella e accogliente nella speranza di rivedermi presto.
Hanno allargato la sala, in modo da strappare al bagno la vista sulle Dolomiti occidentali e su Castel T**n, ora in grande spolvero grazie all'apertura al pubblico e alla relativa promozione da parte di Mamma Provincia, e soprattutto, hanno piantato in mezzo al nuovo supersalone iperilluminato l'ultimo degli status symbol valligiani: el fornel a ole.

Non chiedetemi come si chiami in italiano, ma si tratta di uno di quegli enormi camini che si trovano nelle stube altoatesine, solitamente ricoperti di piastre di ceramica, tranne nel nostro caso, semplicemente imbiancato con spatolate di rosso tendente al magenta.
Il fatto è che, col fornel a ole in casa e il castello con le sue imposte rossobiancorosse che ci si specchia nelle vetrate dall'altra parte della valle, si respira un'aria vagamente tirolese. Per complicare la cosa, mia madre è stata a Bolzano/Pozen e ha comprato pane di segale e salamini secchi piccanti. Tutto questo detto, anzi, scritto, mentre con una mano inforco la crosta dello strudel di mia madre. Forse che noi autonomisti buoni ci stiamo adeguando ai nostri cugini cattivi e reietti?

Ma non è del Suttirolo che volevo parlare, perché quello lo faccio già abbastanza quando incontro qualcuno che mi accusa di appartenere alla loro genia, mentre io sono nato sull'altro versante della montagna, a ben venti chilometri dalle terre germaniche. Volevo parlare delle coordinate di tirolesità del Natale scorso, in attesa di quello nuovo. Del ritrovo alla casa nuova di mio cugino, riscaldata da venti fiati con cromosomi simili e - in percentuale maggiore - dal prodotto più recente della tennologia autonomista cattiva.

Il fornel a ole di mio cugino è rivestito di ceramica, con inserti di conchiglie spezzate, a mo' di finti fossili. Per un intero pomeriggio si era parlato unicamente del nuovo status symbol, di chi ne aveva uno in cantiere come noi, o come il fratello della moglie del suddetto cugino, chi già lo aveva o chi ne progettava l'installazione. Mentre le generazioni più giovani donavano natiche ancora fresche alla ceramica riscaldata, godendo impanciollati del nuovo beniamino di mamma e papà. Nessuno era indifferente di fronte al fornel a ole. Scendendo in cantina e studiando il sistema di alimentazione automatica a legna avevamo scoperto i suoi segreti e si leggeva massima concupiscenza negli occhi di parenti di nascita e acquisiti non ancora dotati dello scaldaceramica d'ordinanza.

E mi sono immaginato una famiglia dell'Italia non autonomista, dove il desiderio non spinge sulle vie del tepore, dove a Natale magari ci sono 10 gradi e al pranzo si parla di calcio.

Ora qui non è che ci sia da aspettarsi una conclusione tipo "meglio qua" o "meglio là". Non è questione di meglio o peggio, è che per un attimo ho pensato che magari ha ragione chi ci accusa. Crucchi siamo e crucchi restiamo. Nulla da fare. Ma non siamo mica cattivi, eh! E non parliamo mica tedesco. E poi col cavolo che vogliamo passare all'Austria e perdere mondiali di calcio e interesse da parte delle ragazze straniere.

Non scherzo mica. Il mio amico Tobias, di Innsbruck, mi ha detto che là, all'università, è pieno di altoatesini che parlano fra di loro un italiano pesantemente accentato e giocano a fare gl'italiani per compiacere le pulzelle.

lunedì 21 dicembre 2009

Omelia del mese: robe che hanno significati

Qualcuno ha ciuffato la scritta di Auschwitz.
Chi, non si sa. E non a molti frega più di tanto di saperlo.
Per fortuna, perché chiunque lo abbia fatto non ha capito una cosa. Non ha capito che il tanto vituperato mondo moderno ha almeno un pregio: che dei simboli e degli atti simbolici, almeno quelli non inerenti modelle che si spogliano in favore o contro qualcosa, non gliene frega più una mazza a nessuno.

"Schiaffo alla comunità ebraica", titola la Repubblica. Ora, per chi ha avuto i nonni internati in un campo di concentramento, o come minimo espropriati, deportati o emigrati, più che uno schiaffo questo è un buffetto.
Neonazi? Macchè. Immaginateli chiusi in una cantina per mesi a studiare il piano, mentre i coetanei frequentavano discoteche per praticare nuove forme di sessualità. Immaginateli chiusi in una cantina fra salami affumicati di sigaretta, pensando seriamente a come entrare nel campo di concentramento. Immaginateli arrancare fra la neve, non come i nonni a Stalingrado, ma come una setta di nerdi, tutto questo mentre i coetanei si scambiavano umori in pista da ballo. Immaginateli che entrano, segano la scritta, la portano a casa, bevono un Montenegro, sentendosi uomini veri proprio come quelli della repubblica ex yugoslava.
E perché? Per dimostrare cosa? Dubito che i coetanei intenti a scoprire nuove pratiche amatorie ne abbiano tratto alcuna lezione.
E tutto questo per niente. Perché obiettivamente, cosa cambia al mondo senza la scritta di Auschwitz? Al massimo un artigiano incaricato di costruirne una fac simile non perde il lavoro grazie a questo incarico. Speriamo un immigrato.

Gli atti simbolici servono per parlarne, ma solo in termini di battute o discorsi che non hanno termine e non portano nulla di nuovo. Oggidì, di cose ne succedono ogni secondo. Parlo di cose concrete, tipo risultati di partite di calcio, sfratti al grande fratello, celebrità che divorziano, politici che fondano pocketpartiti. Per le cose simboliche, quelle valide solo sul piano discorsivo, che non hanno conseguenze pratiche, non ha più tempo nessuno.

Tranne in Italia, dove l'alto grado di socialità della gente li costringe a trovare argomenti di discussione sempre nuovi. In pratica in Italia il dialogo ha assunto il ruolo di azione. In Italia si parla ancora di simboli. E le guglie del Duomo di Milano ne sono piene.

martedì 15 dicembre 2009

Altri colori

Non c’è modo migliore per impressionare la nuova quinquilina di raccontarle della prima volta che ho visto un nero.
Lei viene dal ventre di Parigi. Non quello di Zolà, ma quello ingrassato di periferie adipose del giorno d’oggi, quelle maniglie d’amour e quelle trippe extraurbane dove ogni tanto danno fuoco a una Pegiò o una Renò. Poi non credo che la sua area sia così, ma a me, se mi dici che vieni dalla periferia di Parigi mi viene in mente quello, che ce voi fa’, I’m a valley boy, come ormai amici e colleghi ben sanno.

Lei è rimasta colpita da sta storia del nero, nel fine settimana in cui è tornata a casa sua dice di averla raccontata un po’ a tutti. Una storia nònesa, nel ventre di Parigi.
La prima volta che ho visto un nero, “negro” era il termine accettabile, perché veniva dal latino, mentre “nero” era sprezzante, basato sulla grigia fattualità del colore. Poi gli americani hanno deciso che “negro” non si dice e noi il latino abbiamo dovuto lasciarlo soccombere sotto i morsi a bocca piena dell’inglese. A dire il vero non dicevamo né “nero”, né “negro”, ma “marocchino”, per qualsiasi africano e parecchi arabi, perché il mio dialetto si ferma a o’ magreB (in arabo il senso di lettura va invertito) e si vanta di essere impreciso. “Marochìn” è tutt’ora il termine che tutti usano dalle mie parti, ed è imprecisione, non razzismo.

A Lilù, che poi questo non è che sia il suo nome, è che di Orelì già ne conosco n’altra, le ho raccontato di quel marocchino che era passato col borsone a vendere calzetti e asciugamani e io ero andato in sollucchero e visibilio quando dalla valigia era emersa la sua sveglia personale adibita ad uso privato, verde ospedale, con un gallo che si muoveva al ritmo dei secondi. Siccome sono stato un precursore dei bimbi viziati che girano oggidì, mi ero impuntato e la mia brava mamma moderna me l’aveva comprata per qualche liradiddio.

Quello era stato forse il primo degli africani che passavano di porta in porta a convincerci a comprare i calzetti. Sapevo che esisteva gente nera per via di libri e tivvù, ma non mi sarei mai immaginato di trovarmela là, sulla porta di casa, con sta specie di cerone scuro in faccia. Perché è anche lecito chiederselo, cosa ci fa uno che viene da Yaoundè o da Dodoma a D***o, Tennessee. Guarda, ha perfino il colore che gli sfuma sui palmi della mano. Sembra viola, perché non li chiamano “viola”, invece che “negri”?
Comunque mi sa che sti ragazzi dopo un po’ avevano la cartina, delle case del vicinato e di tutte le donne a casa sole, che bene o male due monete le cacciavano.

Le ho raccontato sta cosa di cui mi sono accorto solo lo scorso maggio, la mia ultima visita nella metropoli alpina che chiamiamo Trento. Le ho raccontato che ogni volta che vedevo un povero nero giravo al largo, perché ancora oggi sai che probabilmente ti chiederà un paio di euri buttati là male. Sospetto spesso fondato, purtroppo. Magari a me no, ché c'ho la faccia da studente e quindi alleato, ma quando giro col padre, la richiesta parte fissa.

Ed è anche un peccato però. Ma che ci vuoi fare, è un pasaggio obbligato per una città adolescente. Gli immigrati che tastano il terreno, cominciano a trovare lavoro in fabbrica, poi in centro, mandano i figli a scuola, che crescono, diventano italiani uguali ai compagni italiani, solo con la pelle e magari gli occhi e i capelli di colore diverso, giocano nel Trento e se hanno culo in nazionale. Tac. Lassù dove abita Lilù a quel punto ci sono già arrivati, ci hanno già vinto i mondiali. Da noi boh.

Boh l’integrazione. Al centro sociale Bruno ho parlato con un ragazzo del Sudan, uno studiato, aveva già letto qualsiasi cosa. Si parlava di libri, non è che fosse tanto amichevole, ma si parlava bene. Poi abbiamo attaccato discorso con la cantante, che era una tipa da Gnuiorca, lui mi ha sentito parlare inglese e mi è saltato addosso “grande, idolo, parli inglese? Non sapevo che i trentini parlassero inglese. Ma sei sicuro che sei trentino?” Questo per dire che integrazione vuol dire anche non vedere nell’autoctono il male.

L’integrazione si impara anche con lo shock, che ai tempo si scriveva choc, ma poi anche la lingua franca è dovuta soccombere agli stessi morsi a bocca piena che hanno dissanguato il latino. La prima nera del mio paese era una ragazza indiana, adottata alla nascita da una coppia nostrana. La sua classe dell’asilo era venuta a trovare la nostra quinta elementare perché ci avrebbero sostituiti l’anno successivo. La maestra aveva regalato un pennarello colorato ad ognuno di loro. Lei era l’ultima della fila e le era toccato il marrone. “Per forza”, ero saltato su io, con quella brillantezza nel dire candidamente la cosa sbagliata al momento giusto che non mi ha mai lasciato, “è marrone”. A me pareva un dato di fatto e quello che mi interessava era la coincidenza, non il colore, figurarsi, io biondo in una classe di mori e castani. Lo sapevo bene io, cosa volesse dire avere addosso un colore diverso. Niente, non voleva dire, per me.
Era partito un boato, con i compagni solidali fra loro a negarmi la parola almeno per le prossime due ore. Le maestre non sapevano cosa fare ed erano partite con un’invettiva sul razzismo, una parola che si cominciava a sentire in giro, ai tempi di Mandela, ma della quale non conoscevo il significato, un po’ come “omosessuale”, accusa che andava di moda lanciarsi contro a ricreazione, pur non avendo idea né di sessuale, né tantomeno di omo.

Quel giorno comunque avevo capito il significato di razzismo: che era meglio tacere. Avevo imparato a tacere la razza, le malattie, le bocciature e i dati di fatto imbarazzanti in generale. Perché essere neri fosse imbarazzante, probabilmente non lo avevo capito. Forse la mia coetanea Lilù già lo sapeva.

sabato 12 dicembre 2009

Politica


Questo mese, lo ammetto, non ci sono stato molto, fra queste righe.
A parte il fatto che sto lavorando ad un paio di altre cosette poco utili e ho una serie di nuove attività, ho iniziato decine di articoli, che alla fine risultavano tutti impubblicabili. Le cose di cui mi va di parlare, al momento, preferisco tenerle fuori onda.

Comunque il denominatore comune dell’ultimo paio di mesi sembra essere la politica, soprattutto quella estrerma, ma non solo. Di quello si può parlarne, anzi, lo fa praticamente chiunque. Perché non io?

C’è stato l’anniversario della caduta del Buro di Merlino. Su quell’ISTAT di dimensioni globali che è Facebook, evento commentato da praticamente tutti i miei conoscenti italiani dotati di titolo di studio superiore (io incluso) e nessuno-ma-proprio-nessuno dei miei contatti tedeschi. Ogni paese ha un suo Sud e la Germania occidentale se ne era già costruito uno fra le industrie del Lungoreno. Uno nuovo non serviva mica.

C’è stato il giorno del noncompleanno di Berlusconi. Una politica anarchica, senza fazioni, con chi in teoria dovrebbe votare il Piddì che ci andava nonostante la direzione centrale suggerisse il contrario. Un misto fra la cultura del dire sempre di NO, quella dell’Okkupazzione e la nuova coscienza politica nascente, indipendente da chiunque sieda in parlamento, soprattutto dai tristi uomini soli che litigano a chi fa più SX. I giornali mettevano lo Psicogrillo a capo dell’antipolitica, ma per fortuna ultimamente sembra essere sparito. Forse ora il personaggio che rappresenta queste posizioni apartitiche è Saviano, che secondo me farebbe meglio a tenersene fuori. Dal momento in cui uno entra in politica, smette di essere inattaccabile. E la lotta alla mafia ha bisogno di gente inattaccabile. Non serve che ci dica che fermare i processi è male. Lo sappiamo già, solo che se tifiamo a DX cerchiamo di convincerci che non è così. ‘serve a un cazzo raccogliere firme su Repubblica.

C’è stata tutta sta musica che mi capita di leggere e ascoltare, a caso, senza finalità precise. Woody Guthrie con la chitarra con scritto che è una macchina per uccidere fascisti. Ma correvano gli anni '30 e la cosa era giustificata, molto più giustificata della vecchia canzone dei 99 Posse che c’hanno sto “bernoccolo antifascista, se vedo un punto nero ci sparo a vista”. A parte il fatto che la dermatologia conosce ben altre soluzioni, ma, come è già stato ripetuto in questa sede, se l’alternativa al fascio è “senti come picchia il compagno”, allora annamobbene.
C’è anche Bobbo, che anche lui è sempre stato uno da dire senza fare, ma almeno lui dopo un po’ se ne è tirato fuori e ha cominciato a cantare d’amore come tutti i cantanti degni di rispetto come Baglioni, Nick Cave e Apicella.

Che poi uno si chiede anche cos’è che bisognerebbe “fare” in politica. Ed è qui che ti voglio. Al momento l’unica risposta che ho è “qualcosa di nuovo e divertente”. Non che qualcuno mi abbia fatto la domanda, ma in questo mondo di blogghi uno le domande se le deve fare, perché gli interlocutori stanno già leggendo un altro blogghe migliore, o scrivono nel loro.
Comunque, quello che bisognerebbe fare sono diverse cose, ma non urla, discorsi, raccolte di firme e manifestazioni. E niente nuovi tormentoni su Berlusconi, che ormai leggo compiacimento negli occhi di chi li cita.

domenica 6 dicembre 2009

Niente compleanni in piazza Dam


In inglese, “No B. Day” significa “Questo non è un compleanno”.
Era il testo di un lungo striscione viola che campeggiava incorniciato da un paio di bandiere italiane nella parte tranquilla e reclusa del Dam di Amsterdam, quella verso le puttane e le fumerie.

E all’inizio, i passanti, invece di pensare “che bel fior”, come gli suggeriva cantando l’assembramento di capelli scuri e giacche a tinta sobria dietro lo striscione viola, si saranno probabilmente chiesti cosa stava succedendo. Forse un centenario della Fiorentina troppo triste per essere celebrato? Poi anche i partecipanti, fino ad allora timidi e impacciati ad osservarsi a vicenda, si sono resi conto di essere loro stessi i manifestanti e con italico ingegno hanno costruito cartelli e manifesti improvvisati, sul posto.
Forse qualche turista si sarà chiesto “who the hell is papi?”, ma poi qualcuno ha pensato bene di risolvere la situazione d’impasse con un’equazione universalmente comprensibile: “Berlusconi = Mafia”. La manifestazione ha preso corpo così, all'italiana, partendo dal caos e organizzandosi via via in maniera creativa, con la gente che si aggiungeva via via che l’iniziativa prendeva corpo.

Io sono uno scettico. Non su Berlusconi, ma sulle modalità della protesta. In principio credo nelle manifestazioni, ma solo se in quantità limitata per non svilirne il valore. Se si manifesta tutte le settimane, per il piacere di farlo, per autocompiacimento, i poteri forti cominciano a fregarsene, perché sanno che qualsiasi cosa si faccia, ci sarà una comunque manifestazione. Ma questa manifestazione poteva essere ascrivibile alle poche degne di essere celebrate. Non fosse magari per il nome, che assegna al presidente del consiglio dei ministri il ruolo di B per eccellenza, come se non esistessero Bossi, Bersani, Baresi F. e G., Boranga, Baglioni, Bugo, Baudo, Braccobaldo, Bonomelli e Bormioli Rocco. Non fosse per il manifesto dai toni superficiali (lo so che non sembra, ma l'Italia non è uno dei paesi maggiormente colpiti dalla crisi economica).

Poi ho deciso che ci sarei andato come osservatore, per carpire il lato sociologico della manifestazione.

E gli spunti sociologici sono stati variegati. Il capopopolo (definizione sua, che alla fine è venuto, anche se solo alla fine) che dà il via alle danze arrampicandosi su una cassetta di plastica di birra Bavaria gridando “Hey, Antiberlushconi!” e incitandoci a recitare poesie, come se la fantasia non fosse già al potere.

“Stefano Cucchi, se era vivo, magari era qui”, detto da un gruppo di turisti intenti a rollarsi una canna, preoccupandosi di essere notati nell’atto apotropaico. “Mettessero in prigione i politici, non quelli che si fanno le canne”.

La competizione fra altri capopopolo dotati di barba e capelli meno istrionici. Uno fa del raziocinio la sua bandiera e dalla cima della scalinata del monumento fallico, cerca di intavolare una discussione seria sugli stipendi dei parlamentari.

La bandiera della pace, che qui è il simbolo degli omosessuali e non tanto della pace.

La bambina di cinque anni vestita di rosa, presa d’assalto da stormi di gabbiani fotografici appena comincia a giocare con un volantino con scritto “No Berlusconi”. Più tardi la ritroverò ai margini dell’assembramento, mentre gioca con uno di quei serpentoni di peluche che servono a bloccare gli spifferi che entano da sotto le porte, un serpentone con la testa di porcellino e la scritta “Berlusconi fuck off!!!” sul dorso rosa.

Il cartello “Antibodies against the Berlusconi virus” e il ragazzo che gira a distribuire “Andibboddis against Berlusconi” di stoffa viola fra il giubilo degli astanti.

E nonostante tutto un’atmosfera pacata e positiva, nonostante i molti NO. Nessuna bandiera rossa, che un olandese o un turista americano o russo potrebbe interpretare in modo diverso rispetto ad un italiano, molti elettori del Piddì, che non solo aveva disapprovato la manifestazione, ma veniva denigrato nel suo stesso manifesto. Segno dell’evidenza scontata che la stanchezza non ha affiliazione politica.

Si sente occasionalmente “Bella ciao”, in versioni timide e a mezz’asta. Qualcuno che deve aver fatto il Sessantotto grida, che il popolo unito giammai sarà vencido, ma è un coro solitario, che non trova molto supporto.

Non si notano stranieri, perché non è che vai a casa di altri a protestare contro il capofamiglia, no? In realtà sui gruppi in rete gli stranieri sono tanti, ad incoraggiare senza osare prendere parte.

E alla fine per qualche attimo viene anche da pensare a Berlusconi, che come premio ha avuto un’altra giornata interamente dedicata a lui. Nel metro di giudizio attuale non conta se quei quindici minuti sono di gloria o di infamia.
E pensi a Berlusconi visto dall’estero, a come parlare male di lui sia stato spesso un ottimo modo per intavolare un discorso con gli stranieri, anche se uso il passato, perché ormai un senso di pudore ti impedisce di farlo. A come una volta, diversi anni fa, in uno degli ultimi giorni a Colonia, un’accesa lettura su di lui ti abbia aiutato a finire sotto le coperte di P., avvenente giornalista locale e a come, ogni volta che il Presidente ti ha fatto perdere la ragione, tu abbia cercato di mitigare la rabbia pensando a lei. Ma quello era solo un risarcimento per le conseguenze che poche settimane prima avevi patito come italiano in Germania, dopo la famosa frase sui kapò nazisti. Il professore di linguistica che entra in classe con una copia dello Spiegel con Lui in copertina, in tenuta da mafioso, lo sguardo canzonatorio dei tedeschi, che non si capacitano di come un paese possa votare un uomo solo perché è divertente, loro che per l’intrattenimento sono dotati di strutture apposite.

Dopotutto, Berlusconi è un prodotto tipico italiano, come la pasta e il mandolino. Mi sono reso conto di quanti lo sostengano solo perché all’estero fa parlare di noi. Perché in Italia, già dai tempi degli oratores romani, il piano retorico conta più di quello reale.