lunedì 30 novembre 2009

Un'altra manciata di stereotipi e generalizzazioni

Mi vedo il 9 sfilare davanti. Di solito da quel punto basta accelerare il passo, fare una corsetta da jogging leggero. Il tram prende tempo per fermarsi e sparar fuori gli sportelli, così basta focalizzare l'attenzione sul pulsante per tenere la porta aperta e terminare lo scatto con un salto con poca elevazione, per atterrare davanti all’obliteratrice elettronica.
Stavolta però il tram non si ferma, perché la seconda fermata della linea, quando non c’è nessuno ad aspettare, la si può anche ignorare.
La scena è quella biblica del “Dio mio, perché mi hai abbandonato”, alzo lo sguardo al cielo, allargo le braccia a mezzaluna sdraiata, quasi cado sulle ginocchia, proferendo ingiurie contro un’incolpevole cantante americana.
Tutto questo anche se il prossimo tram passerà fra dieci minuti. Si sa, incazzarsi è gratis e chi è tirchio come me non può perdere l’occasione..
È qui che si ferma una berlina grigia, un fedele appena entrato nel secondo tempo della vita apre la portiera e mi fa, nella sua lingua piena di graffi, “Monta su, profeta. Nel Nomediddio ti condurrò in salvo, se non a Damasco, almeno alla prossima fermata”.
Iddio e sua madre la cantante americana mi consentono di sconfiggere Babele. Non quella dei rasta, ma quella della torre, scambio due termini ritriti con questa versione norrena del buon salernitano nella sua lingua e la mia giornata è fatta, più felice, in quanto illuminata dall’umana caritas.


L’italiano, quando parla del nordico, pensa ad un individualista serio e noioso, che si fa un mazzo tanto al lavoro per poi tornare a casa sotto la pioggia a mangiare una cena di merda. Il nordico non ha vita sociale, è stressato, non si gode la vita.
Magari lo pensa dopo aver lavorato fino alle 8 di sera, ma questo è quasi un altro discorso.

In realtà l’olandese è “gezellig”, una parola difficile da tradurre, che invero a forza di sentirla comincia a smazzolare non di poco in zona inguinale, che contiene in sé la radice del termine “sociale” e indica fra l’altro la sensazione che si prova in una serata tranquilla fra amici, seduti attorno a un tavolo con una luce gialla calda e un vinello rosso. In pratica significa “divertirsi in modo socievole”.

Un altro termine abusato quassù è “asociaal”. Che ha una valenza diversa da “asociale”, perché non indica una persona solitaria, ma un egoista che non si attiene alle regole della società.

Ora, in Italia e non solo, la pecora nera è un eroe romantico. Anche qui, con la differenza che da ste parti anche un Cassano o un Ceghevara si atterrebbero alle regole della società. La pecora nera ha un ruolo nella società, quello di sputarti in un occhio per tenerti sveglio. Lo sputo avviene in termini metaforici e finisce che non ti incazzi per l’umidità fra le orbite, ma lo ringrazi comunque perché ti tiene sveglio.

Il barbone che ti dice “grazie lo stesso” dopo che gli hai negato il pane quotidiano non è meno duro e puro del pancabbestia che sa che quando gli morirà il cane suo padre gliene comprerà un altro, di quelli rugosi, allevati ad arte per essere brutti, che chissà quanto costano.

Finisce che la gente è meglio disposta verso il prossimo, si fida.

Sabato scorso tornavo a casa in bicicletta, tardi di notte. Pochi metri davanti a me c’era una ragazza mai vista prima, che svolta nell’apertura stretta fra le siepi che porta all'ingresso del mio stabile. È un posto ideale per un agguato o uno stupro, tra l’altro non certo nella zona più sicura della città. Per questo vorrei tenermi a distanza per non spaventarla, ma sono già troppo vicino e non riesco a farlo senza sembrare ancora più sospetto. La ragazza è intrappolata fra la porta d’ingresso chiusa a chiave e la mia bicicletta, si gira, mi guarda e, senza il minimo timore, mi saluta col sorriso sulle labbra.

Non perché qui sia più sicuro che in Italia (non c’è neanche il poliziotto di quartiere!), piuttosto perché si sa che le possibilità che dietro di te ci sia uno stupratore, probabilmente le stesse riscontrabili in Italia, sono troppo basse per rovinarsi la salute.

Un anno fa, sul treno per Nimega. Ad Arnhem, notizia d’emergenza, agite con urgenza. Un fulmine è caduto sulla linea e tutti i treni sono cancellati. I mezzi sostitutivi sono poche corriere scalcinate, proprio come in Italia. I passeggeri vengono evacuati come tanti profughi eleganti, raccolti in un piazzale, ad aspettare qualsiasi opzione dotata di ruote.
Il capostazione ci tiene d’occhio, a volte qualcuno gli chiede notizie sull’accaduto o sulle alternative, ma nessuno si lamenta dell’incapacità di queste ferrovie che sanno solo farti pagare cifre esorbitanti per portarti qua e là su treni da terzo mondo, obiezione peraltro inconfutabile.
Alla fine l’ammassamento di profughi si risolve in un allegro CPT dove si può attaccare discorso con gli sconosciuti anche senza lamentarsi dell’inefficienza di governo e ferrovie.


È la tranquillità, che si sente qui. Qualcuno dice che è perché sono ricchi, altri che è perché fanno yoga. Io dico che è perché tanti sanno rinunciare all’imposizione coatta di se stessi per venire inncontro agli altri. Una mia amica la chiamava empatia.

venerdì 27 novembre 2009

Mai dire mai

“Mai” non si può dire mai. Lo dimostra il fatto che “mai” si può dire. Si può dire ad esempio che nessuno sia mai vissuto millanni. Il fatto che “mai” si possa dire dimostra che non si può mai dire “mai”.

In pratica nulla ha mai valore universale, nulla non accade mai. E perché questo sia vero è necessario che il “mai” non abbia valore universale, che non si verifichi che esso non accada mai.

E tu mi puoi dire che non è vero che nessuno sia mai vissuto millanni. Gesù per esempio, o Gimmorrisson o Carcobein, volendo trovare il pelo nell’uovo, vivono in chi li ricorda. E questo dimostra che è vero che il “mai” è relativo e non si può dire mai, ma anche che non è vero che non si può mai dire “mai”.

C’è questa scena nel libro che leggo.
Sono in guerra, lei va all’obitorio a trovare l’anziano padrone di casa morto di un colpo in testa. E va bene così, è il quadrarsi del cerchio della vita. Poi di fianco a lui vede un bambino, blu come quelli delle chiese. E per lui invece soffre davvero. La sera suo marito torna a casa, anche lui è stato all’obitorio. Sulla soglia calpesta una lumaca, gli dispiace, dice che ormai, in guerra, gli dispiace per tutto.
Poi lei gli chiede se ha visto il bambino. “Quale bambino?” fa lui e si compiace di cazzate, della sigaretta che ha messo nel taschino dell’anziano padrone di casa, per il suo ultimo viaggio, come le rockstar o le rostelle. Si sente bello e maledetto.
E uno capisce che “tutto” non si dice mai, proprio come “mai”, che non è mai corretto.

Poco prima pensavo che un paio di cose ultimamente mi hanno reso immune. Immune a diverse cose, salvo, sterile, ibernato, protetto da tutto.

È stato là, leggendo ste paio di pagine di sto libro che mi piaciucchia sì e no, che ho capito che non si può mai dire “tutto” o “mai”. E sono stato felice, di non essere protetto.

lunedì 16 novembre 2009

Colori

Oggi mi sono sentito moderno. In bicicletta, di ritorno da Ouderkerk, il mio momento di contemplazione.
Mi hanno attratto le strisce di luce dei lampioni riflessi sull’Amstel. Giallo arancio su blu notturno, ho pensato al simbolo della IP.
Poi la pista ciclabile color vino, separata dal prato ancora verde da due cordoli bianchi sottili. Come la maglia della Fluminense.
I colori, ormai, hanno tutti una marca.

domenica 15 novembre 2009

Stimoli

Ad Amsterdam gli stimoli sono tutti di tipo visivo.
Cinema d’essai, musei, gallerie d’arte del Jordaan, le mostre del FOAM e quelle case dalla linea curata, con finestroni che si prendono tutto lo spazio possibile per non perdersi le belle cose che succedono all’esterno. Le cattedrali di mattoni e i barconi abitabili col praticello sul tetto, le insegne Art Decò dei buurtcafè e i parchi di aceri e olmi.
Stimoli solo visivi, sarà anche per questo che qui sono tutti fotografi.
Odori non se ne sentono. Non nei mercati postcoloniali, né sui binari della stazione. Neanche l’acqua dei canali ha odore, nonostante basti vederne il colore in fotografia per suscitare l’istinto di tapparsi il naso.
I rumori sono pochi ed è comunque consigliabile evitarli. La lingua olandese non piace neanche a chi la parla, vittima di R troppo croccanti e lunghe S scivolose. La musica che si sente in giro poi è fatta per essere ballata, preferibilmente in stato di estasi indotta, mai per essere ascoltata.
Amsterdam è una città bella.
Pensandoci bene ci sarebbe un altro senso che qui non viene completamente schifato, il gusto. Centro e sobborghi sono pieni di ristoranti e mangerie, fuoco dell’espressività delle decine di etnie e nazionalità del mia personale Venezia del Nord.
Non ci ho mai fatto caso, perso sempre nel mio mondo visivo, ma comincio a realizzarlo ora che frequento gente che parla spesso e volentieri di cibo.
E poi ho deciso che la prossima riceverà credito aggiuntivo se saprà cucinare bene.
Mi sa che sto diventando adulto.

lunedì 9 novembre 2009

Noi, i ragazzi del muretto di Berlino

Il Muro di Berlino non è che sia caduto così, una mattina senti un rumore, ti giri e patratrac. No, prima si è incrinato per settimane, roba che non serviva essere il tipo della perizia abitativa col martelletto per dire che sarebbe venuto giù.

Infatti non c’è voluto l’esplosivo, ma il cucchiaino del te. È questo che mi ricordo io, che avevo appena compiuto 9 anni, quelli che scavavano col cucchiaino. E chiedevo a mia mamma quanto ci sarebbe voluto a forza di cucchiaiate ad abbatterlo, sto muro. E mia mamma non sapeva rispondere, ma la pratica ha dimostrato che una settimana poteva anche bastare.

Io avevo appunto 9 anni e la cosa mi aveva colpito, ma era un pezzo che le cose avevano cominciato a colpirmi. Credo che tutto fosse iniziato in Romania, con Ceausescu, ste storie con il figlio che aveva fatto strappare (anzi, per un novenne "aveva strappato") le unghie della Comaneci ad una ad una perché lei non gli voleva bene. Le bandiere con il buco dove prima c'era la sua brava aquila socialista. C'erano ste parole scivolose che giravano, "perestroica","glasnost", la più scivolosa di tutte era “Solidarnosc”, sta scritta rossa fatta a mano, simpatica, come i titoli delle storie a fumetti, con sto Walesa che a volte chiamavano anche Vauenscia che gli volevano bene un po’ tutti. Io ci ho messo un po’ a separare il concetto di Walesa da quello di Wojtila. Forse è successo solo quando ho scoperto che il primo aveva i baffoni pelosi e si vestiva meglio.

E c’era stato Tienanmen. Sti ragazzi che "ma sono scemi?" tentavano di fermare i carri armati a forza di braccia. Io provavo a fare lo stesso con la Passat rossa nuova, ma non ce la facevo. Figurarsi i carri armati, è una battaglia persa. Così non mi ero stupito che loro, la loro battaglia, l’avessero persa.

L’unica battaglia persa, perché tutti gli altri avevano vinto.
E sembrava ovvio che avessero vinto, perché avevano ragione loro. Non eravamo ottimisti, non eravamo idealisti. Finiamola con sti discorsi nostalgici sugli anni ’80. Diciamo piuttosto che davamo molte cose per scontate.

Per colpa di questi eventi, questi cambiamenti, ho presunto per anni che la giustizia alla fine trionfasse davvero.

Ho sempre pensato che chi ha avuto un’infanzia troppo facile poi ci si rintani e rinunci ad evolvere, rimanendo indietro un po’ come il figo delle medie, che è ancora fermo alle medie, o quello al liceo, che ora è sempre intento a organizzare cene di classe.

Così chi ha passato troppo tempo al sole poi sente dieci volte tanto le randellate sulla pelle scottata. Rimarremo indietro, noi che gli ideali li davamo per scontati e cerchiamo, per rinverdire i fasti, Berlino a Genova, Baghdad, Kabul, Teheran, L’Avana, Gaza. Avanzeranno i giovani d'oggi, per sfuggire al cecchinaggio del nostro sputtanamento, si fermeranno di nuovo i loro figli e proseguiranno i nipoti.

Anche il tempo, come la vita, non andrebbe preso sul serio.