mercoledì 10 dicembre 2008

Laddove ci si diletta col trattar di calzature

Sarà che risaltano con i colori dell'iride, sarà che ci sto cadendo pur io, ma questa delle scarpe sta diventando un po' alla volta un’ossessione.
Giro da settimane per la Kalverstraat, cercando uno ed un solo irreperibile regalo di Natale e solo ora mi accorgo che metà dei negozi sono di scarpe. Scarpe colorate, Adidas, Onitsuka, Converse: sempre uguali di forma, di colori sempre diversi.
La stessa forma adattata per rapper tamarri da Foot Locker o per adolescenti fosforescenti nei negozi di marca. Per adulti responsabili disponibili modelli in pelle nero o marrone castagna. Per il figlio di Mario Rossi trovi le Converse rosse o blu, ma se vuoi puoi permetterti qualsiasi colore, perché Kill Bill ha sdoganato le scarpe colorate.

E ora l’ultimo grido, la Onitsuka le fa che somigliano alle Converse, a quando la restituzione del favore? Sempre nuovo, ma sempre ancorato alle radici, a quello che c'era già. Colore nuovo, ma rispetto per la forma originaria. È così che cambia la società? Forse che anche Barackobaldo si dovrà conformare a questa legge?

È il vecchio che torna nuovo, la casta delle scarpe. Le All Stars mi smottavano il pancreas quando avevo 9 anni. Le esibivano scucite già i Ramones, nel millenovecentosettantacippa. Poi pare che la gente abbia capito e che l’azienda sia stata sul punto di andare in crauti, per essere poi però acquisita e salvata con un’iniezione anabolizzante di marketing da parte dell'acquirente, che ha avuto la trillante idea di pagare gli Strokes per brandirle dal vivo. Su Wikipedia ci metterebbero un bel [Please verify source], ma a me vi tocca credermi sulla parola. E ora piacciono quasi pur a me, vent’anni mi ci sono voluti per adattarmici, ma ce l’ho fatta alfine.

Discorso parallelo per le Onitsuka, all’inizio buone solo per riconoscere i turisti italiani in giro per il centro di Galway, poi, quando ormai gli italiani non erano più gli unici ad indossarle, diventate anche per me un’ossessione, fino al punto in cui sto cercando il mio terzo paio (prima nere in pelle con striscine gialle, ora in jeans, verde chiaro con strisce e lacci bianchi, ma al negozio le ho viste viola shocking con striscia bianca o grigio opaco con striatura in viola lucido). E mica sono solo io. K è una ragazza di saldi principi, ha sempre disapprovato il mio primo paio, poi dopo un mese la trovo a Genova con quelle da donna, nere con motivo giallo e bianco.

E pensare che la qualità è infima. In caso di pioggia si scivola. E non solo se piove. Ricordo a Galway, in Eyre Square c’era una parte rivestita di pietra levigata, dove si rischiava sempre di cappottare. Chissà quanti turisti ci hanno lasciato le culatte. La suola poi è talmente fine che è come camminare a piedi nudi e dopo un paio di mesi la parte dietro il tallone finisce per venire a contatto con il suolo e si consuma fino a bucarsi. Così uno corre a comprarne un altro paio, uguali, ma di colore o materiale diverso.


Ora vedo che le sneakers, come le chiamano gli adolescenti fosforescenti, sono diventate oggetto cult. Un mese fa i primi libri fotografici (sorry, dovrei dire “book”) all’American Book Center, con tanto di presentazione. Poi il dilagare del fenomeno “Pimp my Sneakers”, dove uno porta le scarpe e gli artisti da marciapiede (street artist) gliele pimpano di gusto.
Risale a ieri la colonizzazione della libreria universitaria, che in vetrina esibiva in cartonato l'evoluzione delle Adidas dalle origini ai giorni nostri, sempre per presentare una nuova mirabile opera editoriale.
Nel negozio equo e pure solidale ho visto le Converse etiche, mentre designer meno equi e pure solidali si sbizzarriscono con le imitazioni. Il motivo caratteristico, le tre linee dell'Adidas, le righe intrecciate delle Onitsuka, vengono sottoposte a mille variazioni. Si sprecano le finte Adidas con due, quattro, mille linee, ci sono quelle con due righe incrociate a X, baffi della Nike e basette della Mike, N, V, Y , Z.

E così fra scarpine per bimbi, ibridi di "trainer" e "sneaker", scarpe da ginnastica e scarpette da finta ginnastica, versioni con caviglia alta, basse da ragazza, semiciabatte, stivaletti (!), uno fa della sociologia un gioco studiando il perpetrarsi della variazione di un unico modello.

martedì 9 dicembre 2008

Oi nemo a veder i Deerhoof

Stavolta non sono il solo ad essere da solo. Penso che tutti gli estimatori dei Deerhoof siano soggetti alla mia stessa sindrome, quella da allergia verso il gruppo da parte di tutti gli amici.
Provate a farli ascoltare ad amici e conoscenti e se passano indenni oltre alle basi veloci, dissonanti e frammentarie, ci pensa sicuramente la voce melodiosamente stridula della giapponesina portatile a farli fuggire.

The human version of Hello Kitty, scrive l’Amsterdam Weekly, e sembrerebbe una metafora triste e stereotipata, se non corrispondesse perfettamente alla verità. Più bassa del suo basso a violino stile Paul McCartney, la Satomi è simpatica come uno di quei personaggi dagli occhi enormi.

“’Cazzo c’entra la statura?”, direte voi. Beh, c’entra perché la sua voce è quella di una che è bassa, ma che ci tiene a farsi sentire, altre scuse mi sa che non ne trovo. Comunque è proprio bassa.

Invece Greg Saunier è alto come un pilone dell’ENEL. È il leader indiscusso, che porta la batteria in primo piano sul palco, esegue di persona saluti e ringraziamenti alzandosi dal sediolino, raggiungendo Hello Kitty e chinandosi sul suo microfono.

Attaccano con Milk Man e si capisce subito che sono un gruppo che si esprime al meglio sul palco. Anche Saunier lo sa e per tutto il concerto ha il sorriso di chi conosce il proprio valore, come quei ragazzini americani che crescono con i genitori che gli fanno ripetere davanti allo specchio "io sono speciale".

Ma nonostante ciò è simpatico, perché si contorce sulla sua batteria fragile come un cestista in una Y10, fa smorfie di concentrazione e fatica e aggiusta continuamente la posizione del suo sonoro ambaradan. Una volta tira perfino le pelli dei tamburi. Si vede che la ama, la sua batteria.



E va bene così, perché il gruppo è costruito attorno a lui, con i due chitarristi che sembra stiano facendo una gara per servire al meglio il loro signore. Una potenza enorme. Tutte le canzoni, dal vivo, assumono una carica stratosferica, tanto da farti pensare che avevi sbagliato a giudicarle. Non solo perché pompano di più, ma addirittura la qualità è migliore.

La batteria detta i tempi, le chitarre si sfidano fra arpeggi da ritiro della patente e riff stralunati, con parti melodiche cucite qua e là, giusto per dare un aiutino all’ascoltatore. Per fortuna c'è la Satomi a ricordare ai ragazzi che non sono i Melt Banana e canta con la sua voce fragile, che è la fortuna, ma soprattutto la maledizione, della band, perché riesce a renderli unici, ma soprattutto indigesti per le masse.

Ma proprio per questo l’atmosfera al Melkweg è più familiare, come spesso accade ai concerti dei gruppi meno noti. Familiare e rarefatta, visto che la sala si è riempita in modo sospettoso solo a dieci minuti dall’inizio. Talmente familiare che il leader del gruppo spalla può permettersi di cantare in mezzo al pubblico, dopo aver cantato il primo pezzo nascosto, per poi sbucare dietro la mia schiena. Bravi i Parenthetical Girls, electro rock con un cantante che è la versione alternativa di Mika e ha tanta, tanta voglia di mettersi in mostra, con colpi di teatro come la scena finale, dove tutti i membri del gruppo terminano uno alla volta con il suonare un elemento della batteria.

giovedì 4 dicembre 2008

Tutti gli dEUS del Paradiso

Ieri sera ho finalmente visto i dEUS. Finalmente perché ho comprato il biglietto a luglio. Suonano per tre giorni consecutivi al Paradiso e i biglietti sono andati come il pane, o come l’ultimo modello dell’iPhone.
Questo è il primo della mia serie di concerti in solitaria, che si concluderà sabato con i Deerhoof. K non è venuta, dice che dei dEUS le piace solo Worst Case Scenario.
Considerando che non ha mai sentito In a Bar Under the Sea, è difficile darle torto.

I primi due album, che sono proprio quelli che ho appena nominato, sono diversi dagli altri. Melodie articolate intrecciate con parti più rock, ma intrecciate in modo nervoso, in modo da darsi il cambio al momento più inatteso. Prendete Via, che parte come una canzone per chitarre, per poi interrompersi al culmine con un ponte che non c’entra niente, con gli strumenti che si bloccano, anche se per due secondi la chitarra si ribella. Poi tutto ricomincia.
C’è del jazz: oltre al violino, che i dEUS hanno sempre avuto in formazione, ci sono violoncelli, xilofoni e strumenti più classici, che addolciscono le tinte. C’è una chitarra che sa di Marc Ribot. C’è del cubismo, sia sulle copertine dei dischi che negli spigoli delle melodie e nei testi; surreali, ma senza troppa facile serietà, più degni di Picasso che di Ernst o Tanguy.

Poi due dei chitarristi se ne vanno, uno per creare i Zita Swoon e l'altro per suonare jazz sperimentale. Rimane il leader Tom Barman, ma viene a mancare l’ala eclettica. The Ideal Crash e il nuovo Vantage Point sono dolci, piatti, normali. Senza difetti, ma soprattutto senza pregi. Per fortuna fra i due esce Pocket Revolutions, un disco dilatato, di canzoni in crescendo, roba che piace agli appassionati di post punk. Freddo fuori, ma caldo a sentirlo bene.

E allora andiamoceli a vedere, anche da soli. E lasciatemi dire una cosa banale, ma da soli si notano meglio i particolari. Ad esempio sapevo che il Paradiso in un’incarnazione precedente era stato una chiesa, ma non ricordavo le vetrate nell’abside ristretta, proprio dietro il palco, che per giunta vengono illuminate a ritmo di musica durante il concerto, in un lampo di gusto per l'atroce totalmente nordeuropeo. E non avevo notato le navate con piloni in ferro e decorazioni tipo stazione ferroviaria. Una chiesa in stile Art Deco non l’avevo mai vista, ma l'idea non sembra cattiva come può sembrare.

E comunque non sono l’unico che è arrivato da solo. Una volta però sarei stato in grado di attaccare discorso con chiunque, ma qui non si usa e uno stupido pudore mi blocca, così mi accontento di stringere un’alleanza formale mettendomi vicino ad un altro ragazzo in solitaria, che per lo più assomiglia alla versione magra del mio amico Philipp, il primo a convincermi ad ascoltare i dEUS.



Stendo un pietoso doppio velo sul gruppo spalla, gli Expatriate, australiani vestiti da Vasco che cantano canzonette che fanno “baby I love you” e roba simile per far colpo sulle ragazze e vengo direttamente ai dEUS, che attaccano con i brani più melliflui degli album che mi piacciono meno.
Sul palco non c’è traccia degli archi dei primi dischi. Per i pochi pezzi vecchi usano tracce registrate e il tastierista/violinista sembra confuso e si accontenta di strimpellare le corde del violino senza archetto. La qualità del suono è infima ed è perfino impossibile capire cosa dice Tom Barman quando si rivolge al pubblico. Mauro Pawlowski, nonostante il suo nome che sembra fatto apposta per un musicista, stona spesso, così come il vecchio Tom.

Poi a metà concerto le cose cambiano improvvisamente. Escono i pezzi vecchi e con questi la voglia di suonare. Ci sono Roses, Serpentine e infine arriva Suds & Soda, che è da anni uno dei primi tre titoli che sparo quando mi si chiede quali sono le migliori canzoni di tutti i tempi, praticamente senza tastiera e con una parte che non capisco se è un’improvvisazione giocata su rumori e silenzi o un vuoto da assenza di assolo di tastiera.



Ma poi, a cosa serve suonare bene se si riesce già a comunicare qualcosa? Il pubblico è entusiasta e mi lascio coinvolgere pur io.

lunedì 1 dicembre 2008

Lessons learned from Berlusconi II to Berlusconi III

Sempre in vena di filosofia da €0,99, riconsideravo tempo fa il mio status di italiano da due anni e mezzo all’estero.

Lasciai il patrio suolo alpestre il 23 aprile 2006. Era tempo di grandi eventi. Il governo Berlusconi stava finendo un’intensa legislatura e si era preparato alle elezioni con una formazione che il boss avrebbe calcisticamente disapprovato: un albero di Natale con il suddetto come prima punta e Casini e Bossi, reduce da un lungo infortunio nei panni di mezzepunte arrugginite e poco affiatate. Dietro di loro una mandria di difensori veloci a marcare attentamente a uomo, per poi ripartire in attacco a sostegno del bomber appena possibile.

Dall’altra Prodi era tornato da una serie di stagioni all’estero instaurandosi subito come regista di un attento catenaccio e ideatore di un mercato scoppiettante, che aveva registrato l’acquisto dell’attaccante Bertinotti e del discusso Mastella, spesso accusato di sapersi esprimere al meglio solo giocando in casa (nella provincia di Benevento).

La compagine sinistrorsa aveva accumulato subito un cospicuo vantaggio in classifica, spinta dall’entusiasmo per il ritorno del vecchio capitano, per poi asserragliarsi attentamente nella propria area. Gli altri avevano passato il resto del campionato ad attaccare, avvelenando l’aria per i tifosi delle due compagini, sempre più divisi ad ogni parola del bomber azzurro, che nel corso della partita decisiva era andato molto vicino al cartellino rosso dopo aver insultato la curva dei tifosi ramettati.

Ora ci sto scherzando, ma ai tempi l’atmosfera non faceva affatto ridere. Ne succedeva ogni giorno una, nei bar si parlava solo di politica da bar e la maggior parte di noi attendeva il giorno delle elezioni come a Roma ai tempi della guerra avevano atteso i cioccolatai a stelle e strisce.

Tanto più che Prodi aveva poi sì vinto, ma proprio per un pelo, e sarebbe stato soggetto alle usme dei rappresentanti delle varie sfumature del “non ci sto”. Così stavano le cose al momento della mia partenza.

Poi nel giro di tre mesi mi era quasi venuta voglia di tornare a casa. Prodi teneva, il nuovo presidente della repubblica era un ex partigiano, la Juve era passata dallo Scudetto alla Serie B ed eravamo campioni del mondo. Battendo la Francia e trasformando l’addio di Zidane in estrema unzione.

Tempo due anni però eccoci da capo. La Juve torna in A, Le prendiamo dalla Francia nella prima partita dopo il Mondiale e soprattutto torna l’Innominabile.

A queso punto però avevo iniziato a concepire la politica come nel resto d’Europa, come una cosa piacevolmente, confortevolmente, rinfrescantemente noiosa. Niente imitazioni in televisione, niente urla, opinionisti preparati e comunque sempre chiedere un’opinione a chi è in grado di esprimerla, non ai passanti o a Crepet. Ma soprattutto la prima. L’assenza delle imbarazzanti imitazioni della Guzzanti e degli epiteti di Psicogrillo implicano già una riduzione significativa dell’esposizione mediatica del nostro odiato eroe.

Niente “I am Italian and President Berlusconi in NOT speaking in my name", ché tanto lo sanno tutti che non lo abbiamo votato e comunque nel loro paese a votare ci va sì e no il 50% degli aventi diritto e vi assicuro che se il nostro president non sanno neanche chi sia.

La ricetta è semplice. Basta non votarlo. Per il resto fai finta di non vederlo, proprio come ti dicevano di fare i genitori con il ragazzino bullo nella cassetta della sabbia.

E magari, prima di lamentarti che sono tutti ladri, smettila di stracciarmi metaforicamente il cazzo e vai a pagare quella multa, invece di dire che vivi in un paese di ladri e i caramba se la prendono solo con chi non è in grado di difendersi.

Questo ho imparato, ma forse no, visto che io che a ste cose ci tengo tanto l’ultima volta che sono stato dal barbiere, quando il buon Umberto mi ha chiesto di fare una ricevuta sola fra me e mio fratello, non sono stato in grado di dirgli di no. Io che affitto appartamenti per le vacanze in Val di Sole per conto di uno che è costretto a farlo in nero perché deve pagarsi ancora le multe per l’evasione della sua attività precedente.