giovedì 30 ottobre 2008

Italians


La ragione per la quale ho lasciato voi innumerevoli fan in solitudine per un po' è che mi sono messo a fare le cose sul serio.
Riconoscendo che le mie scarse doti di continuità mi impediranno di scrivere il mio primo romanzo ("Tutti i miei coinquilini") e ammettendo le mie scarse doti letterarie, ma non volendo comunque rinunciare a scrivere, mi sono messo a buttar giù racconti brevi.
In particolare, ho scritto un racconto per il concorso per la chiusura di Italians. Ci ho messo del tempo, l'ho letto, riletto, corretto, poi al momento di inoltrarlo ho scoperto che il limite non era 2000 parole, ma 2000 lettere. Accorciarlo era impossibile, così ho deciso di lasciar perdere e basta. Tipico, tipico, tipico.

Ok, ammetto di aver saltato un paio di passi nella spiegazione, quindi vediamo di riparare.
Cos'è Italians? Non ho idea di quanto noto sia in Italia, ma fra gli italiani all'estero si tratta di una specie di passaggio obbligato, anche per chi non ama Beppe Severgnini, il giornalista del Corriere che lo gestisce. Si tratta appunto di una rubrica del sito del Corriere della Sera, una specie di variazione sul tema del forum e del blog. I lettori mandano messaggi di poche centinaia di parole, su qualsiasi argomento di attualità o di non attualità, e ogni giorno ne vengono scelti dieci, alcuni dei quali vengono commentati dal giornalista in persona. La cosa bella a mio parere è il fatto che non sono ammessi commenti e repliche, così uno, invece di leggere mezzo post, inserire un commento offensivo o una cazzata giusto per manifestare la sua esistenza, è costretto a leggere pochi interventi selezionati e se proprio vuole può scrivere all'autore del paio di righe una bella e-mail con motivazioni e demotivazioni.
Già, perché qui niente Puffetta86 o peppe_da_molfetta, qui ci sono nomi, cognomi e indirizzi e-mail.
Come traspare dal nome, la rubrica è indirizzata soprattutto agli italiani all'estero. Spesso si trova qualche intervento volto all'autopromozione (soprattutto verso se stessi), del tipo "sono un Managing Director che abita a Londra dopo una laurea a Harvard e ho dei problemi con la mia personal shopper", ma non solo. Da Italians ci passano studenti, pensionati, turisti sessuali e perfino tanta gente che ancora abita in Italia. Recentemente si parla delle presidenziali americane, ma anche di stage malpagati nel trevigiano e donne che non capiscono gli uomini. Oltre ovviamente al caso dell'automobilista che si lamenta di aver preso la multa quando al mondo c'è chi commette reati ben più gravi, che è sempre un classico e torna periodicamente.

Come già annunciato, non tutti amano Severgnini. Se chiedete a me, scrive cose molto intelligenti, ma ha un gusto per giochi di parole e battute decisamente nerd, che ne tradisce le origini altoborghesi. Ma pazienza per le origini, uno mica se le sceglie, e poi, che c'è di male ad essere figlio di un notaio? Tutta invidia la vostra.

L'importante è che quello che scrive sia intelligente, e come già detto, per lo più lo è. Ed è anche uno decisamente al passo con i tempi, uno che conosce internet e sa ad esempio che mentre i giornali erano tutti a parlare di Second Life, usando parole care a noi giovani come "da sballo" e "lato b", tutti si iscrivevano a Facebook (già da mesi, fra l'altro. In realtà non conosco nessuno che frequenti Second Life. Tutti quelli che conosco, io compreso, si sono fermati alla complicata fase di iscrizione).

Severgnini poi è uno che gira. Proprio grazie alla sua estrazione sociale è stato uno dei primi italiani a poter usufruire di una vacanza-studio in Inghilterra, per poi studiare e lavorare a Bruxelles e negli Stati Unti. È proprio questa dimensione cosmopolita a farlo diventare il santo protettore degli italiani all'estero, anche di quelli che non lo amano.

E quelli che non lo amano sono tanti e qualche volta anche lui si diverte a pubblicare i soliti sempliciotti che vengono fuori con i loro "scommetto che non mi pubblicherai perché parlo male di te" o "sei il solito comunista". Che poi come fai a dare del comunista ad uno che è stato nel vivaio di Montanelli? Ma si sa che oggidì per essere comunisti basta dare contro a Lui. E molta gente non capisce che guardando l'Italia da fuori, senza due fette di San Daniele davanti agli occhi, è impossibile avallare Lui.
Su Italians si parla spesso di Lui. Severgnini non nasconde la sua scarsa passione per il personaggio, ma pubblica spesso lettere di Suoi grandi sostenitori. Lettere che fra l'altro sembrano portare sempre le stesse firme.

Così fra casalinghe di Tortolì e affaristi della City sono passati quasi dieci anni. Dieci anni nei quali il boss ha visitato le numerose comunità di Italians all'estero, organizzando ogni volta una pizza. Quando ero in Irlanda mi sono perso quella di Dublino e ora ho toppato anche quella de L'Aia, organizzata quando io ero in Olanda da 3 giorni.

Per il decimo compleanno della rubrica sono state da tempo annunciate sorprese. La prima è più che altro una sor-presa per il culo: la chiusura del forum. E ci sta. Dopo dieci anni a criticare l'immobilità della nostra società, un minimo di coerenza suggerisce l'autopensionamento.

La seconda sorpresa è un concorso di racconti brevi su un'ora della vita di un Italian. Proprio quello per il quale il vostro fedele scribacchino ha scritto 2000 parole invece di 2000 caratteri.
Ore e ore buttate nel cesso. Così ho detto, dai, pubblichiamolo sul blogghettino del cazzo, quello che non legge mai nessuno. Chissà, magari un giorno qualcuno lo leggerà e lo troverà, come un messaggio in bottiglia buttato nell'oceano dieci anni prima.

Tra l'altro ve lo dico subito, non è un gran racconto. O meglio, mi piace l'inizio, ma poi diventa un po' laconico e pieno di bei sentimenti. Un po' me ne vergogno, ma se i sentimenti che provo sono banali, tanto vale scrivere cose banali, no?

Comunque lo trovate qui.

giovedì 23 ottobre 2008

I Sonic Youth a Bolzano!

Dove eravamo rimasti? Ah sì, il concerto.
Come sottolineato nell'articolo di giornale uscito due giorni dopo sul Trentino, si tratta di un evento che unisce stili e generazioni.
La settimana prima del concerto il mio amico Franz mi manda una mail parlandomi del figlio quindicenne di una sua amica che vorrebbe andare a vedere i Sonic Youth, ma non trova un passaggio in macchina.
Con la mia mente torno alla sua età, quando ascoltavo solo e unicamente i Beatles e in tutta la Valle pochissimi conoscevano il panorama musicale che va oltre i soliti nomi. Quando c'erano i grunge che conoscevano solo i Nirvana, i punk che ascoltavano solo Rancid e i metallari adepti dei Metallica.
Certo, a quei tempi se volevi ascoltare qualcosa dovevi comprare il CD, anche sa da lì a poco sarebbe scoppiata la rivoluzione della masterizzazione, ma i miei amici e io siamo felici di fare questo piacere al ragazzino, sperando di portarlo ancora più vicino al verbo di sonorità diverse dal vascorossismo imperante.

Fra lui e David ci sono più di 20 anni di differenza ed è questo che intendo come unione di stili e generazioni. Si tratta di un evento storico per la musica trentina e altoatesina.
È vero che proprio quest'anno Bob Dylan ha suonato a Trento, ma Dylan lo conoscono tutti e molti sono andati a vederlo per il personaggio, non per la musica. I Sonic Youth invece attirano solo i cultori della musica non eccessivamente orecchiabile.
Si incontra tanta gente che si conosce, è il ritrovo di una comunità che è ristretta e minoritaria nei paesi dai quali proviene, ma che riunita in un unico luogo fa la sua porca figura. Siamo duemila, contro i mille previsti inizialmente, i biglietti sono esauriti e alcuni di noi hanno visto uscire Evol, altri come me sono nati pochi anni prima dell'uscita di Confusion is Sex. Ma la maggior parte è nata ancora dopo, diciamo circa in epoca A Thousand Leaves. C'è chi li conosce attraverso i Nirvana, chi segue la scena noise, qualche nerd appassionato di musica complicata, gente dei centri sociali, artisti pop, forzati dell'alternatività. Fra una cosa e l'altra però ci sono tutti.

Prima e dopo il concerto la comunità si avvicina, si conoscono amici di amici, si incontra l'alunno del famoso prof di religione che per hobby produce gruppi dai nomi satanici (a udienza: signora, dica a suo figlio che hanno ucciso il chitarrista dei Pantera), nella zona industriale di Bolzano si ha modo di meravigliarsi per il numero di persone che indossano la stessa maglietta che di solito ti piace perché ti fa sentire diverso. E si sa, il rock è fondato sulla maglietta.
È uno di quei concerti dove tutti i chitarristi frustrati incontrano un bassista e un batterista e fondano un gruppo. Con un po' di dedizione può nascere una scena locale anche in un posto dove la popolazione è così dispersa.

La Stahlbau Pichler, che non è il nome di un gruppo metal, ma un'acciaieria, alla faccia dell'acciaieria ha un'architettura che neanche Frank O. Gehry.
Oltre ai già citati, sono in compagnia di Daniele, un amico che si interessa di privacy e mi tocca quindi menzionare con il nome di battesimo, nonostante tutti lo chiamino per cognome.
Daniele, anzi, il Daniele, almeno questa concedetemela, conosce i sonicissimi solamente per sentito nominare dalla Fabry e me, ma fra i nostri è probabilmente l'orecchio più raffinato, vantando pluridecennale militanza come trombone nel corpo bandistico dal suo paese.
Varcata la soglia dell'acciaieria, gli immancabili stand di wurstel e birra Forst conferiscono al tutto un'aria più alpestre, per me aria di casa. È proprio in fila per la birra che ci perdiamo metà del gruppo spalla, Golden Juckle Age, che suonano tipo i Tangerine Dream, ma senza sintetizzatori, solo con basso e sassofono dritto (tenore?). A me piacciono. Solo a me, a quanto pare.

E poi attaccano i Sonic Youth. Steve Shelley è l'unico che sembra sentire la senilità, anche se è comunque un altro uomo rispetto a quello che il giorno prima si aggirava con l'aria persa per Bolzano. Anche la voce di Kim non è perfetta, ma come tutti quelli che non leggono Chitarre ben sanno, chissefrega di come suonano, l'importante è che creino un'atmosfera.
E l'atmosfera c'è, un amico di David, ultraquarantenne, parte a pogare. Il tipo vestito da truzzo davanti a me invece sembra spaesato, ma anche interessato.
Thurston si diverte come un bambino a giocare con le bacchette della batteria sulle chitarre (una diversa per ogni pezzo, ognuna con un'accordatura differente), fa quasi tenerezza.



C'è tanto Daydream Nation, compresa l'intera Trilogy, e molto dell'ultimo album. A dire il vero potrebbe sembrare che la memoria dei ragazzi si sia interrotta prima degli ultimi due tour (Rather Ripped e la replica totale di Daydream Nation), se non fosse per un paio di brani del primo album piazzati strategicamente all'inizio e alla fine.



Il bis inizia con due pezzi inediti, No Way e Mars, che mi rifiuto di giudicare prima di sentirli di nuovo, poi 100% è l'unica concessione a chi non conoscendo la band si aspettava i vecchi classici. Poi Kim canta Shaking Hell come farebbe Lydia Lunch e si levano le tende.



Siamo tutti soddisfatti, perché a dire il vero al fatto che i Sonic Youth suonassero davvero a Bolzano non ci credeva nessuno fino all'inizio del concerto.

Ah, dimenticavo, il tipo al basso era Mark Ibold dei Pavement.

mercoledì 15 ottobre 2008

I Sonic Youth a Bolzano?


Quando sei nato in un paese minuscolo in una valle alpina, il fatto che il tuo gruppo musicale preferito decida di suonare in prossimità di casa, per giunta nel giorno del tuo compleanno, non può che sembrare un segno del destino.
Non ci credevo quando ho scoperto che qualcuno aveva portato a Bolzano una mostra su artisti legati ai gloriosi Sonic Youth. Che poi il tutto sarebbe stato coronato con un concerto della band, nel giorno che avrebbe sancito per me l'impossibilità di morire a 27 anni come la maggior parte delle rock star, pareva quasi troppo.
Così dopo neanche troppi giorni di ponderazione ho comprato i biglietti aerei per una settimana a casa.

Un concerto dei Sonic Youth significa trent'anni di discografia fra gruppo e mille progetti collaterali e prima del concerto un ripasso è necessario per chiunque. Nelle settimane precedenti riascolto i primi dischi e l'ultimo, accentuando l'attesa.
Ma non sembro essere il solo ad essere impaziente come un bimbo prima di Natale (o come Pietro Maso in attesa di essere scarcerato). Nei giorni precedenti al concerto si avviano discorsi con altri appassionati su tutti i canali dell'internètt.
Così quando salgo sull'aereo per tornare a casa mi pare di partire io stesso per una tournée.

Quella di tornare a casa per il concerto si rivela una saggia decisione. Sembrava che in Trentino e Alto Adige tutti si fossero convertiti al verbo di Kim Gordon, Thurston Moore e Lee Ranaldo (accompagnati da una fitta ridda di batteristi). Perfino i miei genitori si sono preoccupati di risalire all'identità di questo misterioso gruppo, che poi così male non poteva essere, visto che gli hanno dedicato una mostra d'arte al Museion di Bolzano. Mia madre ha subito identificato la band come "chei da la majéta" (quelli della maglietta), memore di mille lavatrici.
E la mia amica Fabry, benedetta sia fra le donne, che lavora per i colleghi trentini di Museion, è riuscita addirittura ad imbucarmi nella conferenza stampa in corrispondenza dell'inaugurazione della mostra.

L'inaugurazione avviene il giorno prima del concerto. Sulla Skoda bianca di David, il moroso della Fabry, c'è anche l'"inviato" di Rumore (virgolette rese necessarie dalla gratuità della prestazione), che ha prenotato un'intervista con Thurston Moore, suscitando l'invidia di tutti noi e il seguente imboscamento della Fabry, sottoposta per questo alla gogna davanti ai suoi datori di "lavoro".
Dal finestrone della sala conferenze di Museion lo sguardo attraversa l'alta Val d'Adige fino all'Austria, quando appaiono un cinquantenne allampanato, uno stagionato viveur dai capelli pepe e sale, una rispettabile signora e uno spaesato turista americano.
L'impatto con i propri idoli è spesso traumatico, ma la senilità sonica ne esce comunque quantomeno dignitosamente.
Meno dignitosamente ne esce invece il giornalista della tv nazionale austriaca, che appena si accorge che la conferenza viene tradotta solamente in italiano, la interrompe per dichiarare che non è necessaria alcuna traduzione, dall'alto della rispettabilità conferitagli dai suoi baffetti da tredicenne. Avevo già avuto modo di notare come gli austriaci si sentano sempre in dovere di confermare lo stereotipo. Benedetta l'organizzatrice francese della mostra, all'oscuro del prurito linguistico che impregna il Suttirolo.

Tra l'altro lo stesso giornalista pone a Thurston la domanda più stupida possibile, la cui risposta si rivela invece molto interessante.
"Vat zu yu zink of the current art situazio?" Mr Moore risponde che non ne ha idea, perché lui di arte non se ne intende e tutti gli artisti esposti sono stati scelti per amicizia o incontro casuale. Il che conferma quello che noi tutti sappiamo, che quelli famosi non sono per forza gli artisti migliori, ma quelli che per un motivo o l'altro hanno ricevuto maggiore esposizione. Solitamente si tratta di artisti appartenenti a scene, che traggono beneficio da stimoli e fama di chi gli sta vicino.
Sulla fama non mi pronuncio, ma quella degli stimoli offerti dalla scena locale sembra essere una tematica rilevante nella carriera dei Sonic Youth. Dal punto di vista musicale, quella di New York è una fucina di scene, che spesso si contaminano e uniscono nella scena più grande e longeva al mondo, partendo dal primo jazz, passando per la Factory, il free jazz, il punk e la no wave, sporcandosi di arte di ogni genere. Una scena sempre attenta alle avanguardie e alla sperimentazione.
Moore ricorda come nel 1977 tutti gli artisti gnuiorchesi ascoltassero solo la disco, per poi giungere inevitabilmente a contatto con l'allora vivissima scena punk/no wave.
Ricorda anche come si fosse meravigliato ascoltando per la prima volta un artista non musicale discutere di no wave invece che di ballare Disco Inferno. Si trattava di Dan Graham, un placido vecchietto con la barba bianca e un giubbotto milletasche che, anche lui presente, si diletta a parlarci di Teenage Jesus and the Jerks.

Finita la conferenza stampa, mentre aspettiamo che gli altri finiscano di intervistare Thurston Moore, David e io facciamo un giro nella mostra, ancora in via di allestimento.
Riduco al minimo i commenti, non essendo io un esperto. Comunque c'è tanta pop art, ovviamente (dieci anni prima dei Sonic Youth la scena di New York era quella di Andy Warhol), tanti colori, ma anche sangue, pistole, violenza, che sembrano essere inevitabili in qualsiasi manifestazione di americanità. Fotografie originali di supereroi beat (Lee ne è un cultore) e fumetti, installazioni in via di costruzione e una yurta con strumenti per consentire ai visitatori di metterci del loro. O per sottolineare ancora una volta che al posto dei Sonic Youth, potrebbe esserci qualcuno di noi.

Intanto Steve Shelley si aggira ancora per ore timido e sperduto fra il negozio della mostra e il bar sul retro, con un paio di cd in mano. Fa tanta tenerezza, è proprio uno di noi.

Ma mi sa che per oggi ho scritto anche troppo, quindi direi che del concerto ne parliamo alla prossima occasione. Un blog senza lettori può permettersi di aspettare, no?

martedì 7 ottobre 2008

Io e tanta bella gente

"È qui che va la bella gente." È bastato che Er Tinta profferisse queste magiche parole per farmi capire che sarebbe stata una serata difficile. E gli altri "Sì, dai, che è pieno di figa". Al fatto che anch’io sarei una gran figa sotto falde freatiche di trucco nessuno ovviamente ci pensa. Che poi uno usi il termine "bella gente" in senso non derogativo, mi spaventa non poco. Comunque di andare a casa non ne ho voglia, di fare l’asociale nemmeno, quindi che fare? Dai, ci andrò, facciamo sto sforzo, al massimo troverò qualcosa per il mio blogghetto che nessuno ha mai letto.

Ed è subito sospiro di sollievo, perché pare che il buttafuori ci neghi il privilegio di accedere, credo grazie al mio vestiario colorato. Ma poi arriva Er Magnaccia, un deficiccio molto ciccio che prima di lasciarci per gli impegni di cui in seguito fa cenno alle guardie di farci entrare, cercando possibilmente di far notare il suo potere a chiunque nel raggio di svariate miglia marine.
Questo ovviamente solo dopo averci illustrato il suo problema: sarebbe dovuto uscire con cinque fighe, e almeno una gliela avrebbe data di sicuro. Però prima avrebbe dovuto portarle a ballare e la tipa avrebbe ceduto solo verso le 6 di mattina e lui è troppo vecchio poverino per stare in giro fino a quell'ora.
Il primo istinto è quello di indagare se anche uno solo di noi gli crede, o se lui stesso crede che noi gli crediamo, ma gli altri sono già passati al guardaroba e ora puntano già i loro tagli scelti.

È al bancone che capisco che il Veronese è con me. Ma è troppo buono per pensare male e troppo timido per commentare. Allora lui e io ci affidiamo ai simboli e ordiniamo della volgare bbira. I due romani invece solo roba che si serve nei tumbler.
"Qui sono tutte carine" esclama il candido Dà, "Ammazza quanta fregna", ribatte Er Tinta raggiante e si mette a puntare una bionda.
Dopo un po’ la bionda ricambia lo sguardo, così Er Tinta si spaventa e attacca col piano B, rivolgersi a noi per parlare di finanza, anticiparci con disinvoltura merger e acquisizioni.

Il Veronese sembra intuire la densità della situazione e mi chiede se ho voglia di fare un salto con lui in un altro bar a trovare alcuni suoi amici. Il sollievo si dipinge in rapida successione sul mio volto (luce in fondo al tunnel) quello der Tinta (con quelli appresso nun se rimorchia) e quello de Dà (me dispiace, ma sto a cercà l'anima gemella).
Sono sorpreso quando scopro che questi amici nell'altro locale non sono una scusa, ma esistono davvero. La sorpresa aumenta quando al Weber non li troviamo e raggiunge il culmine nel momento nel quale il Veronese proclama convinto di voler tornare al postaccio di prima.

Non dico niente, anche perché, che ci facciamo io e lui soli in un bar strapieno? Tanto stavolta Er Magnaccia nun c'è e sto cazzo che ce fanno entrà. Infatti è così, i buttafuori fanno passare tutti quelli intorno a noi, mentre noi attendiamo. Il Veronese si rivela più candido del previsto, non intuendo il motivo di tale attesa. Poi dopo una mezz'ora i manzi si commuovono per la nostra pazienza, tipo "quei due devono tenerci proprio ad entrare in questo esclusivo buco", e ci aprono le porte. Cerchiamo gli altri. Spero che siano fuggiti con due fighe, ma so che così non può essere.

Temporeggio bevendo spuma, diceva il saggio. Ma qui spuma non ce n'è e provo a ordinare birra, operazione più complicata del previsto. È calca: un'intera generazione di figli di papà, ancora sicuri di essere dei bimbi speciali, fanno prevalere il loro diritto spingendo e schiacciando il sottoscritto insieme ai figli di altri papà. Un trentenne con i capelli di Briatore tira fuori una mazzettona di biglietti da cinquanta e ne porge uno al barista.
Arrivano le birre, i romani non si vedono e allora meditiamo una per me dolce ritirata, che non si rivela facile, impantanati fra schiene nude e blazerini di Armani.

Siamo davanti alla porta, il Veronese è già quasi fuori, io mi giro per un secondo e in un fotogramma vedo dei capelli tinti di nero, seduti al tavolino all'entrata. Non so che mi prende, ma segnalo l'avvistamento e i romani, ormai arresi alla triste realtà, sembrano felici di vederci e ci fanno accomodare.

Nel giro di dieci minuti i romani però si ringalluzziscono e propongono la puntatina in disco. Stavolta non ce la faccio e mi congedo. Il buon Dà sembra non aver capito e insiste un po', ma riesco comunque a svignarmela.
Appena slego la bici mi sento sicuro, fra le vie del centro di Amsterdam. Nelle finestre senza tende degli appartamenti del quartiere dei musei si intravedono le sagome della bella gente, che ha lasciato il locale prima di noi per fare quello che a volte chiama amore. Io tiro dritto e mi fermo solo davanti al cortiletto di casa. Il giorno dopo esco con gli svaccati e andiamo in uno squat. Quando racconto della sera precedente si fanno tutti due grasse risate.